Revisione della somministrazione farmacologica nelle diagnosi “in prosecuzione”

La Suprema Corte di Cassazione, con orientamento risalente e consolidato, ha affermato come versi in colpa il sanitario che, di fronte ad una sintomatologia idonea a porre una c.d. “diagnosi differenziale”, mantenga ferma l’erronea posizione diagnostico/ terapeutica iniziale (cfr. sul punto Cassazione civile, Sez. IV, 3 febbraio 2006, n. 4452: “In tema di responsabilità professionale medica, nel caso in cui il sanitario si trovi di fronte ad una sintomatologia idonea a porre una diagnosi differenziale, la condotta è colposa quando non vi si proceda, mantenendosi nell’erronea posizione diagnostica iniziale. E ciò vale non soltanto per le situazioni in cui la necessità della diagnosi differenziale sia già in atto, ma anche quando è prospettabile che vi si debba ricorrere nell’immediato futuro a seguito di una prevedibile modificazione del quadro o della significatività del perdurare del quadro già esistente…”).

Tale principio appare intuitivamente comprensibile alla luce delle obbligazioni che tipicamente caratterizzano la prestazione del medico, finalizzata a porre in essere la terapia più favorevole per la salute del paziente.

Quindi il medico che, a fronte di una sintomatologia, di anamnesi o di altre notizie idonee a porre decisamente in dubbio la sua (inesatta) diagnosi iniziale, rimanga invece arroccato sulla stessa, trascurando di prendere in considerazione una diagnosi differenziale, dovrà essere considerato responsabile di imperizia e di negligenza.

Cosa succede però (e come si atteggia il contenuto dell’obbligazione del medico) se la diagnosi iniziale ha previsto l’impostazione di una corretta terapia farmacologica che però, a lungo andare, ha determinato gravi effetti collaterali che sarebbero stati scongiurati con una revisione dei dosaggi, con la sospensione della terapia o con la somministrazione di altri farmaci?

Anche in questi casi, secondo la giurisprudenza, il principio del dubbio in merito alla correttezza della prosecuzione della terapia farmacologica già impostata (non importa se da un altro medico) appare certamente applicabile se la somministrazione del farmaco evidenzi effetti collaterali dannosi (o comunque tali da aggravare il pregiudizio all’integrità psico.fisica del paziente) ed il medico ometta di valutare la somministrazione di farmaci alternativi (o la sospensione della terapia) od, infine, la somministrazione di essa ad un più basso dosaggio.

Ed infatti risulta pacifico che, fra le obbligazioni derivanti dal c.d. contatto sociale, siano inclusi, fra gli altri, quegli obblighi di cura, di protezione e di assistenza che impongono comunque una rivalutazione della correttezza della terapia farmacologica già impostata (con sospensione o modificazione di essa, laddove riconosciuta dannosa per il paziente).

Si veda in proposito la sentenza in commento, in cui il paziente – assistito dall’avvocato Gianluca Ballo – ha fatto valere in giudizio la responsabilità della struttura sanitaria per i gravissimi danni all’integrità psico.fisica derivati dalla necrosi di spalla e di anca determinate dall’eccessiva assunzione di cortisone (farmaco necessario per la cura di altra patologia polmonare che affliggeva il danneggiato, secondo una diagnosi correttamente impostata in origine ma indebitamente proseguita, a dosaggio immutato, pur in presenza di evidenti effetti collaterali altamente dannosi).

Il Tribunale di Rovigo (16) riconosceva al danneggiato – rappresentato dall’avvocato Gianluca Ballo – il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale subito, liquidando a tale titolo una somma di oltre 414.000,00 euro.

 

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