Responsabilità per colpa medica per “inadeguato tecnicismo operatorio”
Nel caso in commento la paziente di un’Azienda Sanitaria, affetta da una grave neoplasia, lamentava come l’intervento chirurgico di asportazione del tumore, effettuato dai sanitari che l’avevano avuta in cura, avesse avuto un esito positivo solo parziale, non essendo stato estirpato tutto il tumore ed essendosi la patologia puntualmente ripresentata a distanza di qualche tempo.
Sosteneva in particolare la paziente come l’insuccesso (o, per meglio dire, il successo parziale) dell’intervento chirurgico di asportazione della neoplasia fosse dipeso da un approccio operatorio incompleto (per inadeguato accesso) e che – applicando un differente tecnicismo chirurgico – sarebbe stato possibile far luogo all’estirpazione radicale del tumore che l’affliggeva.
A seguito di tale inadeguato accesso operatorio una parte della neoplasia non era stata asportata (con evoluzione in aggravamento della sintomatologia stessa) ed aveva costretto la paziente ad un successivo trattamento con nuova ablazione chirurgica.
Il ripresentarsi della malattia aveva purtroppo causato una grave invalidità temporanea e permanente, consistente in un serio decremento della pregressa validità psico.fisica della danneggiata.
La danneggiata – assistita dall’avvocato Gianluca Ballo – introduceva quindi avanti al Tribunale di Venezia un procedimento di consulenza tecnica preventiva medico.legale ex art. 696 bis c.p.c., in base ai cui esiti era possibile accertare come esistesse effettivamente un nesso di causa fra le complicanze post.operatorie temporanee e permanenti subite dalla ricorrente (affetta da gravi menomazioni funzionali) e le (inadeguate) modalità di effettuazione del primo intervento chirurgico di ablazione della neoplasia.
In conclusione il primo intervento chirurgico, definito dal medico.legale come tale da non comportare la risoluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, non avendo conseguito l’esito sperato di totale asportazione della neoplasia (possibile con un diverso tecnicismo operatorio), aveva determinato un netto peggioramento delle condizioni di salute della paziente.
La danneggiata aveva quindi correttamente allegato e provato – secondo quelli che sono i generali principi di prova in materia di risarcimento del danno causato da attività medica – l’esistenza del rapporto di cura, il danno ed il nesso causale ed aveva altresì soddisfatto l’onere di allegare (ma non anche di provare) la colpa del medico (gravando infatti su quest’ultimo, più in generale, l’onere di provare che l’eventuale insuccesso dell’intervento, rispetto a quanto concordato o ragionevolmente attendibile, sia dipeso da causa a sé non imputabile – cfr. ex multis: Cassazione civile, 20 ottobre 2015, n. 21177).
Veniva quindi introdotta la causa civile di cognizione, atteso che l’Azienda Sanitaria dissentiva dalle risultanze della consulenza tecnica preventiva assunta nel corso del procedimento promosso ex art. 696 bis c.p.c. ed il Tribunale di Venezia (23), respinte le eccezioni avversarie, ha riconosciuto alla paziente danneggiata – rappresentata e difesa dall’avvocato Gianluca Ballo – un risarcimento del danno non patrimoniale e patrimoniale di oltre 44.000,00 euro.
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