Condanna d’ufficio per “responsabilità aggravata” ex art. 96 cpc.
Nel quadro dei rimedi tecnici approntati dal nostro legislatore a presidio del sindacato di correttezza del comportamento delle parti litiganti e – più in generale – dell’adeguato utilizzo dello strumento processuale, spicca la figura della c.d. “responsabilità aggravata”, istituto giuridico purtroppo assai poco applicato dai nostri Tribunali.
L’art. 96, comma 1 °, del codice di rito prevede che: “Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche di ufficio, nella sentenza.”.
Il terzo comma dello stesso art. 96 c.p.c. aggiunge poi che, ricorrendone i presupposti, detta condanna al risarcimento del danno per “responsabilità aggravata” possa anche essere pronunciata d’ufficio (ovvero in assenza di una domanda di parte) con liquidazione di una somma di denaro equitativamente determinata dal giudice.
La responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96, comma 3 °, c.p.c. – a differenza di quella di cui ai primi due commi della medesima norma – non richiede, quindi, la domanda di parte né la prova del danno, ma esige pur sempre, sul piano soggettivo, la mala fede o la colpa grave della parte soccombente, sussistente nell’ipotesi di violazione del grado minimo di diligenza che consente di avvertire facilmente l’infondatezza o l’inammissibilità della propria domanda.
Peraltro, sia la mala fede che la colpa grave devono coinvolgere l’esercizio dell’azione processuale nel suo complesso, cosicché può considerarsi meritevole di sanzione l’abuso dello strumento processuale in sé, anche a prescindere dal danno procurato alla controparte e da una sua richiesta di risarcimento, come nel caso di pretestuosità dell’azione per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata, ovvero per la manifesta inconsistenza giuridica (o la palese infondatezza) delle argomentazioni e delle tesi difensive formulate.
Tale istituto, che prevede quindi la possibilità di irrogare una condanna al risarcimento di natura non compensativa, riecheggia, benché alla lontana, i verdetti di cui ai c.d. “punitive damages”, diffusi, ad esempio, già dagli anni ’60 del secolo scorso, negli ordinamenti di “common law” (e tipica forma di deterrente nei contenziosi in materia di responsabilità civile, soprattutto negli Stati Uniti).
Rientrando nel nostro contesto nazionale, pensiamo al caso di una compagnia di assicurazioni che – forte di risorse economiche decisamente superiori rispetto a quelle di cui può disporre un comune cittadino danneggiato, vittima di un fatto illecito – decida di resistere in giudizio con colpa grave, impegnando la vittima del fatto illecito, che avrebbe diritto di conseguire il legittimo risarcimento del danno subito, in una lunga ed estenuante battaglia legale, portata avanti sostenendo una tesi difensiva manifestamente infondata.
In proposito si legga un’interessante pronuncia del Tribunale di Parma/ Sezione Seconda Civile (14) che, oltre ad aver riconosciuto al danneggiato – rappresentato dall’avvocato Gianluca Ballo – un risarcimento del danno da fatto illecito di oltre 155.000,00 euro (di cui 45.000,00 euro corrisposti prima del giudizio), ha condannato la compagnia di assicurazioni e l’assicurato – per aver sostenuto con colpa grave una versione fattuale della dinamica del sinistro stradale completamente sconfessata da un filmato di una telecamera di sorveglianza che aveva ripreso la scena – al risarcimento, in favore della vittima del fatto illecito, dell’ulteriore danno da “responsabilità aggravata”, determinato in via di equità nella somma di 2.500,00 euro per ciascuno dei soccombenti.
Il Tribunale di Parma, accogliendo la prospettazione dell’avvocato Gianluca Ballo, dichiarava infatti che l’assicuratrice convenuta (ed il suo assicurato) avevano maliziosamente dedotto in giudizio una ricostruzione dei fatti completamente diversa dalla realtà, tentando di addossare all’incolpevole danneggiato una quota di responsabilità nella determinazione dell’incidente stradale che lo aveva visto coinvolto.
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